Di Omar Gargantini

Ve la ricordate Sandra Mondaini? “Uffa che noia, uffa che barba, sempre la solita storia”, diceva più o meno così, prigioniera dei ritmi abitudinari e ormai sempre più insofferente all’assuefazione. Già, non c’è nulla di peggio della ripetitività: ti logora e ti toglie emozioni. Ecco, quando penso alla nazionale è un  po’ questo che provo: dal 2004 ci siamo abituati (bene, questo lo concedo) ad essere sistematicamente seduti al tavolo delle grandi, a partecipare cioè sempre alle fasi finali dei grandi tornei. Ma proprio per questo è ovvio, umano e fisiologico alzare l’asticella delle ambizioni e sperare in qualcosa di più. Che però, accipicchia, non arriva mai. Sempre fuori agli ottavi di finale, è questo il fastidioso ritornello che ormai è una litania. Gli ottavi sono la nostra frontiera invalicabile, una vera ossessione: e passi se a batterti è l’Argentina, come accaduto in Brasile nel 2014, mentre se a farti fuori sono Polonia e Svezia, beh, chi si dice comunque contento secondo me sconfina nell’ipocrisia. Non puoi essere contento: specie se ogni volta vedi un outsider capace di fare l’”impresa”, di arrivare laddove tu non arrivi mai. Il Galles, semifinalista dell’ultimo Europeo ad esempio.
Il problema, anzi uno dei problemi, è che noi fuoriclasse (quelli che in tempi moderni si chiamano top-player, come se usare l’inglese renda meglio l’idea) non ne abbiamo. Non ne abbiamo ora e purtroppo non ne abbiamo mai avuti: il nostro settore della formazione sforna bravi scolaretti disciplinati, attenti e ligi, ma sono evidentemente tutti troppo incanalati e ghettizzati. A scapito del talento, dell’imprevedibilità e di quella sana follia che spesso e volentieri fa la differenza nei contesti di maggior equilibrio, come lo sono le sfide ad eliminazione diretta ad alto livello. I nostri sono buoni giocatori, ma di fenomeni nemmeno l’ombra. Shaqiri sta collezionando panchine e tribune e siccome era già accaduto al Bayern prima del Liverpool vuol dire che non vale quei livelli, Xhaqa è sopravvalutato come pochi ed è quasi sempre il primo ad arrendersi quando le cose si mettono male, Seferovic è umorale e il suo score in rossocrociato è emblematico, i difensori appena ci si azzarda ad etichettarli come forti se non fortissimi si siedono.
Vista così, questa straordinaria capacità di esserci sempre è motivo di vanto, ma la stabilità e la continuità rubano la scena all’exploit che ti spinge nella storia. Quello che aspettiamo invano dal 1954 (quando peraltro il quarto era il primo turno ad eliminazione diretta…). Uffa che noia uffa che barba, di queste campagne lineari e senza brividi ci siamo un po’ stufati e se qualcuno la definisce ingratitudine fa niente. Baratterei immediatamente una mancata qualificazione in cambio di un grande risultato all’edizione successiva.
Oltretutto, c’è la sensazione che questa nazionale non faccia l’unanimità nemmeno nel pubblico: non è amata come lo era quella di Hodgson o di Kuhn. Non c’è più quell’orgogliosa identificazione che ti procurava le farfalle allo stomaco ad ogni partita. Non arrivo a dire che sia senz’anima, ma insomma, certe prestazioni vuote (come con la Svezia all’ultimo Mondiale) e certi atteggiamenti non sono piacevoli.
Insomma, ci dobbiamo accontentare, a quanto pare: mentre gli altri, a turno, si tolgono sfizi e soddisfazioni che noi possiamo solo sognare. Si, esserci è bello, ma dopo dieci bistecche vuoi mettere un filetto che si scioglie in bocca?

Di Tarcisio Bullo

Ho l’impressione che siamo diventati un popolo di smemorati e autolesionisti, quasi un unicum nel panorama del tifo calcistico internazionale. Abbiamo una Nazionale che si qualifica per la quarta volta consecutiva ad un grande torneo calcistico (concesso: con 24 squadre ammesse su 55 era difficile non centrare l’obiettivo) e che dal 2004 ha mancato solo l’Euro del 2012, ma buona parte di chi la segue ne analizza risultati e prestazioni col bilancino del farmacista, spaccando il capello in quattro per cercare di trovare qualche difetto al gioco e al rendimento della squadra. Come se a questo stadio della competizione – le qualificazioni del Campionato europeo del 2020 – l’obiettivo non fosse stato semplicemente di staccare il biglietto per la fase finale.
Quelli della mia generazione ricordano nitidamente gli anni della Svizzera delle sconfitte onorevoli, che dopo il Mondiale del 1966 ha dovuto attendere il ‘94 per ripresentarsi sulla grande vetrina internazionale. Anni di frustrazione, noi a casa davanti alla televisione, privati della possibilità di prendere parte alla grande festa del calcio. E dopo l’Euro del ‘96 in Inghilterra, per altre tre volte abbiamo dovuto ingoiare un boccone amaro: Francia ‘98, Belgio/Olanda 2000, Giappone/Corea del Sud 2002. Allora sì, ci sarebbe stato motivo di criticare, disapprovare, arrabbiarsi. E successe.
Oggi rimproveriamo alla Nazionale di non essere capace di andare oltre gli ottavi di finale, di non saper regalarci un risultato di grido, prevediamo il futuro, immaginando che, visto il cammino di queste qualificazioni, anche al prossimo Europeo non sapremo fare bella figura. La realtà dice che in quanto appassionati dovremmo prima di tutto essere felici di esserci, all’Europeo, per quanto la nostra presenza renderà alle casse della Federazione: soldi che non finiranno solo nelle tasche dei calciatori, ma contribuiranno a rinforzare la solidità finanziaria che permette poi investimenti indispensabili a livello della formazione per rimanere competitivi. E poi, partecipare alla grande festa continentale del calcio significa coinvolgere emotivamente l’intero Paese, riempire le piazze, garantirsi visibilità e popolarità. Tutto questo dovrebbe suggerirci di gioire per il risultato colto dagli elvetici, guidati da un coach messo in discussione da molti, ma che ci risulta amato dalla maggior parte dei calciatori e, soprattutto, dalle statistiche che parlano per lui.
La domanda di fondo, a questo punto, è perché questa Nazionale non sia amata da tanti, troppi svizzeri. E non susciti un po’ di entusiasmo anche tra molti colleghi che la seguono raccontandone le gesta. A questo punto è probabile che riemerga la questione della sua identità multietnica, che pare lontana da quella francese o olandese, più incline a fondersi in uno spirito patriottico assente in casa rossocrociata, dove si segue l’inno a bocca chiusa e se ce n’è la possibilità si riafferma apertamente la propria vera identità. È evidente che in presenza di un solido rapporto d’amore si perdonano più volentieri errori e distrazioni, ciò che non avviene da noi, dove la squadra nazionale, tecnico compreso, non ha saputo capitalizzare un patrimonio di simpatia, nè dà l’impressione di brillare per capacità di comunicazione. In questo senso, di sicuro non giova nemmeno continuare a dichiarare obiettivi altisonanti senza mai riuscire a raggiungerli: della serie, prenditi un bagno di umiltà e vola basso. Da qui a gettare l’acqua sporca insieme al pupo però ce ne corre: se si vuole una Nazionale vincente non serve a nulla creare polemiche pretestuose e circondarla di scetticismo. Personalmente, non baratterei la nostra lunga serie di presenze a Mondiali ed Europei con una partecipazione estemporanea come quella del Galles ad Euro 2016, sebbene caratterizzata dall’emozione di poter giocarsi una semifinale.

di Alex Tamburini

Bratislava – Il mondiale di hockey è senza dubbio un evento basato sull’aggregazione. Una kermesse che si ripete ogni anno a primavera inoltrata, dove i tifosi colorano piste e città ospitanti mescolandosi in allegria tra spalti, strade, fans zone e ritrovi pubblici. Una festa, in allegria, da raccontare parallelamente all’avvenimento sportivo. Salvo rare eccezioni (Riga nel 2006 o Minsk nel 2014 di recente), due città ospitano il mondiale, seguito a livello mediatico in 165 paesi con – a livello televisivo – oltre 1,2 miliardi di contatti accumulati sull’arco del torneo in 8000 ore di diffusione. La sala stampa di Bratislava ospita circa 400 accreditati a livello mediatico, fotografi, giornalisti della stampa scritta, multimediale, radiofonici o televisivi, cameraman, produttori di emissioni sportive, addetti stampa e opinionisti (tra i quali capita di incrociare volti noti del mondo dell’hockey mondiale). L’aggregazione diventa anche a livello lavorativo un emozionante crogiolo di confronto con altre realtà, internazionali; anche però un luogo dove la stampa svizzera e quella ticinese vive “gomito a gomito”. Le varie redazioni si uniscono tramite i loro inviati, tra i ritmi dettati dalle agende sempre più blindate dalle Federazioni (la Svizzera in questo offre una disponibilità ed elasticità notevole), collaborano, si confrontano e uniscono anche fuori dalla pista, dal lavoro. Il Ticino è rappresentato da una decina di inviati, la cifra varia come le dinamiche di comunicazione che evolvono, dallo storico inviato del GdP e della stampa scritta sempre più ridotta si è passati all’aumento del multimediale, vuoi per la RSI, vuoi per portali come HeShootsHeScoores. Non cambia, a prescindere dalle firme, le voci, i volti, quello spirito di aggregazione che in simbiosi all’evento si crea anche tra i “narratori” dell’evento per la nostra terra. Ed il prossimo evento, in Svizzera, avrà un sapore particolare. Non si racconterà e vivrà una realtà che si scopre anche attraverso musei, geografia, lingue straniere o fermate dei mezzi pubblici da interpretare tra mappe da scoprire e decifrare; saremo noi svizzeri, anche noi ticinesi, a ospitare i colleghi stranieri, cambiando le lenti di lettura dell’evento. Occhiali diversi, ma non quella dinamica – imprescindibile – di aggregazione che contribuisce ad avvicinare lettore, spettatore, ascoltatore, alla festa mondiale dell’hockey.

di Marzio Mellini

Alcune associazioni regionali si dicono in difficoltà e hanno chiesto aiuto. Sportpress ribadisce il proprio ruolo (che non è quello di risolvere problemi interni) e suggerisce l’idea di una fusione per tamponare l’emorragia di affiliati e di colleghi disposti a entrare in comitato
In occasione dell’assemblea dei delegati di Gienvra dello scorso novembre, le Sezioni di Argovia, Basilea campagna, Basilea Città, Bienne Seeland, Giura e Soletta hanno sollecitato Sportpress.ch affinché studiasse delle soluzioni volte a migliorare la situazione di crisi in cui versano le suddette associazioni, che lamentano – come molte altre, del resto – la disaffezione dei soci, lo scarso riscontro nei colleghi più giovani, il calo dei tesserati e le difficoltà nel convincere i colleghi a entrare in comitato assicurandone la continuità.
In risposta a tale richiesta, Sportpress ha analizzato la situazione e deciso di invitare tutte le Sezioni a fare il punto sulle questioni sollevate dai firmatari. Ne è uscito un quadro abbastanza preoccupante, anche se non si tratta di problemi nuovi, bensì di questioni aperte da tempo. Posto che da alcune Sezioni sono comunque giunte notizie confortanti (buon numero di soci, situazione finanziaria a posto).
Raccolte le informazioni del caso, Sportpress ha inviato un documento in cui da un lato si spiega chiaramente che non è compito dell’associazione cappello risolvere problemi interni alle singole Sezioni, le quali sono chiamate a chinarsi sulle rispettive difficoltà apportando i correttivi che meglio credono ; d’altro canto, però, in quanto rappresentante di tutte le Sezioni, Sportpress ha voluto dare un paio di suggerimenti. È stato soprattutto chiesto di prendere in considerazione l’idea di una fusione tra Sezioni in difficoltà, ragionando in termini più ampi rispetto a quanto si è sempre stati abituati a fare in passato. Una fusione è consentita dagli statuti, Sportpress non solo non la potrebbe impedire, bensì la caldeggia, se dovesse essere utile ad associazioni la cui sopravvivenza è in pericolo.
I firmatari della presa di posizione che ha ‘scatenato’ il dibattito’ hanno rispedito al mittente la proposta di Sportpress, ritenendola affrettata, superficiale e non rispondente alle richieste avanzate. Sportpress, dopo aver ribaduto che le Sezioni godono di ampia libertà, ha stigmatizzato il fatto che la proposta di una fusione sia stata scartata a priori (la sensazione, più che una sensazione, è che in ballo vi siano personalismi che prevaricano il bene stesso delle Sezioni coinvolte).
La discussione è aperta, il tema sarà trattato in occasione dell’assemblea dei presidenti del 25 ottobre prossimo.

di Paolo Galli

Il Premio Giuseppe Albertini ha raggiunto uno statuto per il quale il suo valore neppure andrebbe più spiegato, o definito. Certo va mantenuto. O forse addirittura rilanciato. Molto però, in questo senso, dipende dalla sostanza del premio stesso, dalle possibili sue destinazioni. Perché al centro di tutto c’è il calcio, quello vero. Da lì devono svilupparsi i talenti a cui poi poter affidare il Premio, il suo prestigio, la sua futuribilità. Dal calcio vero e per il calcio vero. Un talento, parafrasando il noto cantante, lo vedi dal coraggio, a volte, dalla fantasia, altre. In certi casi le due qualità viaggiano a braccetto. E allora, in quei casi, si capisce di essere di fronte a un possibile campione, o quantomeno a un possibile giocatore da nazionale maggiore. Spesso l’ATGS è passata anche da lì, da quel genere di giocatori. A volte invece si è lasciata tentare dalle scommesse, più o meno improbabili. E se un anno la scommessa la vinci, l’anno dopo magari anche no. Quelle vinte sono le più belle, certo, perché permettono allo scommettitore di credere di avere davvero un intuito speciale e lo spingono ad andare oltre, a piazzarne un’altra. Un’altra scommessa. Già. Ma i talenti, persino quelli dotati del binomio coraggio-fantasia, non sempre poi esplodono, a volte si ritrovano ad avere a che fare con un intoppo fisico, delle scelte sfortunate, proprie o altrui, oppure semplicemente arrivano in ritardo. Il Premio Giuseppe Albertini quest’anno ha deciso di non piazzare scommesse, ma anche di non aspettare il proprio eventuale destinatario, pur vedendo doti qua e doti là. Un anno di pausa – ne siamo sicuri – non gli toglierà valore, anzi potrebbe persino giovargli. Anche perché il prestigio non si basa sulla quantità, bensì sulla qualità degli elementi che si succedono a determinarlo. Elementi e qualità che potrebbero ritrovarsi frenati dalle recenti (ma non nuove) liti di campanile, con forze che qualcuno evita di far convergere. Piuttosto le disperdono, le buttano via, spendendo soldi ed energie in nome della propria bandiera, delle proprie convinzioni. Ma non per forza per il bene dei giovani, checché se ne dica. Se in questo preciso momento storico non ci sono giocatori ticinesi da nazionale, be’, allora qualche limite la struttura potrebbe anche averlo. Giusto spenderci perlomeno una riflessione. Giusto evitare scommesse allora, almeno per quest’anno, anche e proprio per il bene del Premio.

Nella foto: Valon Behrami, uno dei calciatori ai quali in gioventù era stato assegnato il Premio Giuseppe Albertini.